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L'indomani, disperato d'ogni soccorso, co' suoi affamati, con Del Carretto morto, Provera chinò il capo e si arrese.

In quel giorno che fu il quattordicesimo d'aprile del 1796, che allegrezza nel Quartier generale piantato in Carcare, quasi a distanze uguali da Montenotte, da Dego e da Cosseria! Buonaparte entrando in casa al Sindaco, dove si era messo da padrone, non lo trovò a far le accoglienze. Quell'ometto, genovese fiero d'animo e nemico ai Francesi, s'era ridotto in cucina per non ossequiare l'ospite mal gradito. Quando si udì venir addosso quel trionfo di generali, andati a cercarlo sino in quel suo rifugio, egli nemmeno si volse. Allora Joubert, pesto e bendato nella faccia, gli menò una scudisciata rimbrottandolo del contegno irriverente. Ed egli, afferrato urlando un coltellaccio, si slanciò contro Buonaparte risoluto a scannarlo. Se non era rattenuto, che mutamento nel mondo sulla punta di quel coltello! Buonaparte non volle che fosse toccato. Forse, in quel momento bello della sua vita, la gioia lo disponeva a bontà. Forse il pensiero di tanti vinti, delle bandiere e dei cannoni conquistati, del Direttorio, del mondo che presto si sarebbe prostrato a lui, non gli permise di chinarsi a lasciar punire quell'ometto protervo. O pensò alla casetta di Ajaccio, alla madre, al padre suo che, ventotto anni avanti avrebbe fatto peggio al generale Marbeuf che vinse i Còrsi, se gli fosse entrato in casa a quel modo? Accennò agli ufficiali, e tutti lo seguirono di sopra ossequenti. Ma il sindachetto non mutò d'animo, sebbene, indovinato il grand'uomo, abbia tenuta poi sinché visse intatta la stanza dove questi dormì quella notte. Ora chi dal castello di Cosseria, guarda per cercare il mare attraverso la gola di Cadibona, scopre i profili grigi d'uno sterminato edificio, piantato a guardia di quel passo predestinato. E il forte d'Altare, bel nome ispiratore per quelli che dovessero morirvi contro chi si cimentasse nemico a passare. Quasi a piede del forte, nel borgo che gli dà il nome, vive operoso un popolo di vetrai, antico, ricco, gentile. Discendono da una primavera sacra di Fiamminghi venuti da secoli a mettersi in quella gola, quando v'erano quasi vergini le foreste; e ne serbano qualche cosa nella finezza del viso, nei suoni della parlata, nell'assiduità al lavoro. Che gioia per loro e per tutti, se scendendo dal forte il vecchio cannoniere tediato oggi, domani, per sempre, sbadiglierà la noia che si soffre lassù! L'operaio, grondante sudore, soffia dalla canna una bolla di cristallo incandescente, e in un batter d'occhio le dà forma leggiadra: - Duri, dirà, duri, o soldato, la vostra noia! Ecco un bicchier bell'e fatto, beviamo alla pace! - Montenotte e l'uomo fatale Una trentina d'anni fa, dal Consolato francese di Genova fu scritto al Comune di cui fa parte Montenotte, per sentire se vi esistesse sempre e in eguali condizioni, o se fosse stato distrutto e in qual tempo, il monumento decretato da Napoleone nel 1805. Era comparsa nei giornali di Francia una lettera di lui al generale Berthier, del 6 fiorile anno decimoterzo repubblicano, nella quale egli divisava il monumento da erigersi in qualche punto lassù, forse sul culmine di Monte Legino, dove con 1200 granatieri della 117a mezza brigata, chiamata poi sempre la brava, giurati alla morte, stette il colonnello Rampon, contro tutte le forze d'Argenteau, dall'alba alla sera, e determinò la gran vittoria del giorno appresso. Il generale Buonaparte aveva pensato già all'impero sin da Montenotte? Non parrebbe, perché allora non curò di fare scrivere ciò che creava, e soltanto da imperatore poi, mandò a rilevare quel terreno e a raccogliere memorie. In quanto al monumento decretato da lui non fu mai eretto: stanno soltanto i ripari di pietre formati dai granatieri di Rampon su Monte Legino e i montanari li rispettano ancora, li chiamano ancora il ridotto; nient'altro. Ma chi osasse dire che un monumento potrebbe erigerlo lassù, liberamente, l'Italia nuova, che cosa gli si griderebbe? Eppure sentivano vagamente che la speranza della nostra nazione era cominciata appunto dalla vittoria di Buonaparte lassù, i vecchi di mezzo secolo fa, che si ricordavano d'aver da giovinetti udito dire che quell'uomo, che quei francesi erano venuti in Italia a far lavorare duecentomila fannulloni: e prima di loro avevano sentito così i loro padri, che di quel detto avevano poi visto cominciare e seguire il commento in azione. Dunque nulla di antipatriottico in un monumento che soltanto dicesse: Qui - guerriero di genio italico - Buonaparte generale - aperse l'èra nova - in cui la Patria degli avi suoi - ritrovò alfine se stessa. A Montenotte, Buonaparte era già l'uomo fatale dall'anno avanti. Sfiorò le pagine di Alberto Sorel. «Il 12 vendemmiatore, ossia il 4 ottobre 1795, i capi del partito moderato nella Convenzione credevano d'aver ormai in pugno la vittoria sugli ultimi uomini del Terrore. Cominciò ad insorgere la sezione di Lepelletier. Il generale Menou, che comandava le forze dell'Assemblea, si lasciò sopraffare. Perciò le altre sezioni, imitando quella di Lepelletier, presero ardimento e deliberarono di marciare il giorno appresso contro la Convenzione, per opprimerla. La Convenzione disponeva solo di 5000 uomini sicuri, con 40 cannoni; di guardie nazionali delle sezioni se ne contavano 40.000. Allora la Convenzione diede il comando supremo delle proprie forze a Barras, per difendersi. «Questo ex-conte provenzale di quaranta anni, che da giovane era stato ufficiale di marina, poi aveva partecipato all'assalto della Bastiglia, poi era entrato alla Convenzione ed aveva votato per la morte del Re, dopo il supplizio dei Girondini, di Hebert, di Danton, si era trovato alfin a lottare petto a petto con Robespierre, e aveva vinto. Il 12 vendemmiatore egli era presidente della Convenzione. E quel giorno accettò risolutamente il comando delle forze di cui la Convenzione poteva disporre, sebbene egli sentisse di non avere le qualità necessarie a servirsene, in quel terribile frangente che doveva essere l'urto insurrezionale del giorno appresso. Ma durante la seduta aveva visto nelle tribune la figura di Buonaparte. Lo aveva già conosciuto all'assedio di Tolone; era stato qualche volta in conversazione con lui l'anno avanti, essendo commissario civile della Convenzione presso l'esercito d'Italia; e sapeva che cosa poteva essere nascosto in quel cervello, in quel petto. Così lo chiamò subito a sé, e gli offerse il comando effettivo delle forze che egli aveva accettato. Buonaparte pensò un poco; certo indovinò di trovarsi ad uno di quei momenti della storia in cui si risolvono situazioni supreme; forse anche sentì che quella per lui era l'ora di afferrare pei capelli la fortuna e di salvare la Francia e la rivoluzione. Nelle Memorie di Sant'Elena troviamo la relazione postuma del ragionamento fatto da lui in quel brevissimo istante in cui Barras gli chiese ed egli rispose il terribile: . Ecco: «Se la Convenzione soccombe, che sarà delle grandi verità della nostra rivoluzione? Le nostre vittorie, il nostro sangue non saranno più che delle azioni vergognose. Gli stranieri che vincemmo, verranno, trionferanno e ci copriranno di disprezzo. Una gente incapace (intendeva dei Borboni), un corteggio insolente e degenerato (intendeva degli emigrati) riapparirà trionfante, rimproverandoci i nostri delitti, facendone le proprie vendette, e governandoci come iloti, con la mano degli stranieri. Così la disfatta della Convenzione cingerebbe di gloria la fronte dello straniero, e sigillerebbe la vergogna e la servitù della patria». Diceva queste parole più di vent'anni dipoi, ma erano la rievocazione della visione lucidissima avuta da lui in quel gran momento del suo colloquio con Barras. Il fatto è che il giorno appresso, 13 vendemmiatore, egli con quei cinquemila uomini e quei quaranta cannoni spazzò dalle vie di Parigi le quarantamila guardie nazionali delle sezioni. La storia non tollera supposizioni, sarà vero: ma se la reazione dei repubblicani moderati avesse vinti e oppressi gli ultimi rappresentanti della Convenzione, quanti passi avrebbero avuto a fare i realisti e gli stranieri per ricondurre la Francia sotto il vecchio regime? «Buonaparte era ancora giacobino allora, ma dovette applaudirsi in se stesso di non aver voluto accettare, poco più d'un anno avanti, l'offerta di Robespierre il giovane che aveva voluto metterlo a fianco del proprio fratello onnipotente, nel posto di quel generale Henriot, di quel grottesco soldato che nelle giornate di Termidoro lasciò travolgere i fratelli Robespierre e tutto il loro gruppo nella rovina. Allora Buonaparte aveva detto al proprio fratello Giuseppe, che lo sollecitava di accettare l'offerta di Robespierre: «Non c'è posto onorevole per me, se non presso gli eserciti. Abbiamo pazienza! Più tardi comanderò Parigi». «E ora vi comandava davvero. Da quel 13 vendemmiatore cominciò la sua fortuna. Erano passati i tempi della povertà, delle angustiose peripezie, delle mezze cadute, da cui però si era sempre rialzato da sé, o s'era imbattuto in chi lo aveva rialzato; Doulcet, per esempio, direttore della sezione della guerra. Costui, cui era piaciuto «quel piccolo italiano», come egli diceva, «pallido, malaticcio, ma singolare per l'arditezza delle sue viste e l'energica fermezza del suo linguaggio», gli aveva dato tutta la sua confidenza; e negli uffici della guerra Buonaparte aveva composto quei mirabili piani di invasione della Valle del Po, ch'egli stesso eseguì poi con rapidità fulminea nel 1796-97. «La conquista d'Italia era già stata una idea capitale del Comitato di Robespierre, ma l'ispirazione pare fosse dovuta all'influenza del Buonaparte sul gruppo. Comunque sia, l'onore toccò a lui. Entrare in Italia, trovarvi mezzi da campare tra gli agricoltori, ricchezze tra la nobiltà da spogliare: ecco la tesi. «Vincere il nemico e farsi fare le spese da lui era un vincere due volte», aveva detto Baudot alla Convenzione nel 1794. Buonaparte lo sapeva, non aveva bisogno di impararlo da lui». Come dice bene queste cose il grande storico Sorel! Trascrivo. «Egli, Buonaparte, aveva venticinque anni. Nato còrso, s'era attaccato alla Francia per via della Rivoluzione. Portava nel sangue le passioni primitive che produssero questa Rivoluzione: all'odio e alla gelosia della nobiltà minore e povera contro l'aristocrazia congiungeva l'orgoglio ambizioso del popolo sovrano. Non era di quelli che avevano fatto la rivoluzione, ma di quegli altri a pro dei quali la rivoluzione era stata fatta. Egli la incarnerà in sé e dirà: “Io sono la Rivoluzione!”. Sente in sé le passioni popolari del francese: disprezzo per gli stranieri, odio contro l'Inghilterra, desiderio di conquista, amor della gloria. Farà suo proprio lo splendore della gloria. Farà suo proprio lo splendore della Repubblica, e con questo splendore penetrerà il popolo e l'esercito della Francia. Ma, penetrandolo, lo dominerà». Non lui, ma l'uomo che egli doveva essere, era stato preconizzato nel 1790, nei primi tempi della Rivoluzione, quando questa era ancora quasi benevola e mite. Rivarol, uno dei membri della Legislativa, aveva detto: «O il Re avrà un esercito o l'esercito avrà un Re: le rivoluzioni finiscono sempre nella spada. Silla, Cesare, Cromwell». E nel 1791 un segretario di Mirabeau s'era espresso con pensiero degno del suo padrone: «Siccome la dinastia non ispira che diffidenza, le si preferirà qualche soldato fortunato, o qualche dittatore creato dal caso». La gran Caterina di Russia scriveva: «Cesare verrà!». E nel 1794, indovinando vicino il tempo buono per chi avesse osato meritatamente, scriveva ancora: «Se la Francia esce da questa stretta, sarà più vigorosa che mai, diverrà ubbidiente come un agnello; ma le bisognerà un uomo superiore, abile, coraggioso, più alto de' suoi contemporanei, forse più alto del suo secolo stesso. È nato? Tutto dipende da questo». Diceva così la Zarina, spirito chiaroveggente, divinatore. Essa morì prima di potersi lodare da sé della propria profezia e di riconoscere che l'uomo era nato. Ma chi sa? Essendo morta nel novembe 1796, poté forse intuirlo già tutto nel vincitore di Montenotte. Il Buonaparte era della stoffa di Machiavelli. «Mi lascino entrare nel loro servizio, anche in piccolissimo ufficio», diceva questi dei Medici, quando s'era disposto a servirli per farli grandi e grande con essi la patria. «A salire penserò io». E il sangue dei Buonaparte veniva da Firenze. Dunque il 13 vendemmiatore ci mise il piede nella staffa, e non lo levò più finché, pigliatosi alla criniera, non fu in sella alla cavalla focosa che spronò poi per tutta Europa. Cominciò dall'Italia e parve fatale. Qui da noi si affermò la sua figura dominatrice. Dopo la battaglia di Lodi un poco, e dopo quella di Arcole addirittura, non diede neppur più retta agli ordini che gli venivano dal Direttorio. E qui da noi aveva trovato che il paese era nelle sue classi sociali medie, ben disposto al grande rivolgimento. C'erano pur qui i giacobini propagandisti, che avrebbero accettato una rivoluzione anche violenta; e c'erano più numerosi certamente, i preparati ad una repubblica felice, scevra dall'aver subìto l'iniziazione del sangue e del terrore. I patrioti italiani erano persuasi che l'Italia era chiamata a scuotere il giogo, a ricominciare la propria esistenza, a riprendere il proprio posto superiore. Infiammati da queste speranze, pubblicavano che per l'Italia era venuto il momento di porsi a pari con la Francia e con la Germania in potenza, come era già a pari con esse per la civiltà e per il sapere. E poiché la libertà non era possibile a conquistarsi se non in uno sconvolgimento generale, pensavano che bisognava affrettare la catastrofe, invece di allontanarne gli effetti. Buonaparte seppe sfruttar da par suo quelle passioni, ma per allora a tutto profitto della Francia. Egli amava l'Italia, ma con la prontezza d'intuito di cui era sommamente dotato, così che per l'Italia non si poteva allungar abbastanza la mano per afferrarne l'avvenire e farglielo divenir presente. Troppa era la matassa di filo che bisognava dipanare per ordirle e tesserle una vita nuova; e perciò egli ne fece una riserva d'uomini e di denaro a beneficio della Francia. Alla scuola della guerra si sarebbe disusata dal sopportare muta, e rifatta dallo sbocconcellamento in cui s'era invilita nei secoli, avrebbe acquistato coscienza di sé per l'avvenire. Che egli amasse l'Italia appare da un suo lavoro preziosissimo dettato a Sant'Elena e corretto da lui di suo pugno. Vi tratta della configurazione della penisola sotto il titolo: «Campagne d'Italia». E la descrizione che ne fa, è una plastica in cui tutto piglia forma, le pianure, i corsi di acqua, i sistemi di montagna; e la parola vi diventa cosa. Credo che nessuno abbia superato questa descrizione, fatta con amore che si rivela nelle pagine in cui sono tracciate le linee della difesa d'Italia, con una evidenza suggestiva, come se Napoleone vi avesse trattato non di una Italia quale egli l'aveva lasciata, ma di una Italia quale oggi l'abbiamo, unita a nazione. Egli n'ebbe il presentimento e ne scrisse così: «L'Italia pare chiamata a formare una grande e potente nazione, ma essa ha nella sua configurazione geografica un vizio capitale che si può considerare come la causa delle disgrazie che dové sopportare, e dello sbocconcellamento in parecchie monarchie o repubbliche indipendenti: la sua lunghezza non è proporzionata all'ampiezza. Se l'Italia avesse avuto per confine il monte Velino, presso a poco all'altezza di Roma, e se tutto il territorio situato fra il detto monte e il mar Ionio, compresa la Sicilia, fosse stato gettato fra la Sardegna, la Corsica, Genova e la Toscana, essa avrebbe un centro quasi egualmente vicino a tutti i punti della circonferenza; avrebbe unità di correnti, di costumi, di climi, d'interessi locali». Discorre poi minutamente degli inconvenienti determinati dalla configurazione, col sentimento d'uomo che non poteva valutare quanti poi ne avrebber levati via il vapore e il telegrafo; ma pieno di fede proclama tuttavia l'Italia nazione. «L'unità di costumi, di lingua, di letteratura deve, in un avvenire più o meno lontano, riunire finalmente tutti i suoi abitanti sotto un solo governo». Per esistere (avverte Napoleone), la prima condizione sarà ch'ella sia potenza marittima, onde mantenere la superiorità sulle sue isole e difendere le sue coste. E soggiunge che «nessun paese d'Europa è posto in situazione più favorevole per diventare potenza marittima». Calcola che ha un terzo di coste di più che non la Spagna, e la metà di più che non la Francia; dice che quanto a marinai ne può dare più di ognuna delle due dette nazioni, perché oltre alle sue genti delle coste, le terre della penisola, anche interne, sono così influite della vita del mare, che le città come Lucca, Pisa, Ravenna, Roma, si possono dire marinare anch'esse. E ne divisa i grandi porti. Quello della Spezia gli pare il migliore dell'universo: vede Taranto meravigliosamente collocato per dominare il levante; di Venezia dice che ha tutto, quasi compiacendosi dei lavori ch'egli vi aveva fatto fare, nel canale di Malamocco. Venezia! Ah! Venezia era rimasta anche per lui una puntura, pel modo con cui l'aveva trattata da generale conquistatore e trafficatore di popoli nel 1797. E ripensando a quel periodo della propria vita, e alle accuse caricategli addosso dagli italiani pel baratto di Venezia all'Austria, nel famoso trattato di Campoformio, si lagnava a Sant'Elena di non essere mai stato compreso dagli italiani. Essi, lo diceva conversando coi suoi generali, non seppero mai riflettere che Venezia, orgogliosa della sua storia gloriosa di undici secoli, mal si sarebbe acconciata a divenir città di provincia nella Cisalpina, sotto Milano capitale. Dandola all'Austria ei l'aveva mandata a patire la servitù straniera; dura scuola in cui avrebbe prestissimo appresa la rassegnazione, per tornar italiana, contenta anche di una condizione inferiore. Alla prima occasione l'avrebbe ripresa, come difatti la riprese nove anni dopo nel trattato di Presburgo. Argusta giustificazione, cui si può rispondere facilmente «senno di poi»: ma sarebbe grossolana offesa allo spirito del grandissimo uomo. Certo egli nel 1797 non era ancora ad Austerlitz ma in una testa come la sua, e sapendo egli su qual Francia poteva contare anche un calcolo come quello di cui disse poi a Sant'Elena, poteva essersi mosso, come dovette moversi poi difatto, nello spazio e nel tempo. E di un'altra cosa si lagnava, a proposito del rimprovero che gli era stato fatto di non aver unificato l'Italia. O non aveva egli dato al proprio figlio il titolo di Re di Roma? Se la sorte gli avesse dato di regnare in pace sicura con tutta l'Europa, almeno vent'anni, come natura gli avrebbe potuto concedere; giunto il Re di Roma a un'età giusta, lo avrebbe associato all'impero, e allora gli italiani avrebbero veduto che cosa sarebbe stato dell'Italia. Il leggere quelle cose di Sant'Elena, ora che Napoleone è ormai così lontano, mentre il secolo testé chiuso era ancor così pieno di lui, dà una gagliarda malinconia al cuore. Fu necessario alla Francia un uomo che fosse capace di vincere l'Europa, e di far penetrare nelle leggi, nei costumi, nelle coscienze, tutte le conquiste materiali e morali della Rivoluzione? Ebbene, l'uomo fu lui! Le cose conquistate si vennero poi modificando per opera del tempo e pel lavoro delle generazioni; e ora, come dice il Sorel, la democrazia del 1795, piena del concetto della grandezza dello stato e delle guerre di magnificenza, compì la sua trasformazione in una democrazia veramente repubblicana, pacifica, perché la pace è condizione d'esistenza per lei, che cerca la grandezza nel proprio progresso, e che è più curante del lavoro, della giustizia e della libertà, che non della supremazia e delle conquiste. Essa si è rimessa alla testa dell'Europa.

Am nächsten Morgen,  senkte  Provera, da keine Unterstützung kam und die seinen völlig ausgehungert waren, Del Carretto tot war,  das Haupt und ergab sich. Welche Freude herrscht an jenem Tag, dem 14. April 1796, in Carcare, wo sich zu diesem Zeitpunkt, in fast gleichem Abstand zu Montenotte, Dego und Cosseria,  das Hauptquartier befand!  Buonaparte hatte sich zum Bürgermeisteramt begeben, dessen er sich bemächtigt hatte, konnte diesen aber dort nicht antreffen, um ihn zu empfangen. Dieses Männchen, ein stolzer Genueser und Feind der Franzosen, hatte sich in die Küche zurückgezogen, um den unangenehmen Gast nicht begrüßen zu müssen.  Als er  das Triumphgeschrei der Generäle hörte, die gekommen waren, ihn zu holen, drehte er sich nicht mal um. Jobert, das Gesicht blau geschlagen und verbunden, verpasste ihm einen Peitschenhieb, um ihn für sein ungebührliches Betragen zu bestrafen.  Er packte daraufhin einen Dolch und stürzte sich auf Buonaparte entschlossen ihn zu töten. Hätte man ihn nicht zurückgehalten, wie anders wäre der Lauf der Welt gewesen aufgrund dieser Dolchspitze! Buonaparte wollte nicht, dass man ihm etwas antue. Vielleicht stimmte ihn diesem schönen Moment seines Lebens die Freude milde. Vielleicht erlaubten ihm  der Gedanke an all die Bezwungenen, an die Fahnen und die erbeuteten Kanonen, an das Direktorium, an die Welt, die ihm bald zu Füßen liegt, sich dazu herabzulassen, diesen hochmütigen  Mann zu bestrafen. Oder vielleicht dachte er an das Häuschen in Ajaccio, an seine Mutter und seinen Vater, der den General Marbeuf, der die Korsen besiegte,  weniger freundlich aufgenommen hätte, wenn er auf diese Art das Haus dort betreten hätte (Marbeuf hat die Korsen im eigentlichen Sinne nicht „besiegt“. Er hat sich nur durch Steuersenkungen, akzeptierte Reformen, Erlernen der korsischen Sprache ihre Sympathie gewonnen. Marbeuf wohnte eine  Zeitlang im Elternhaus Napaloeons in Korsika und vermittelte Napoleon auch eine Schulausbildung.) Doch die Stimmung des kleinen Bürgermeisters änderte sich dadurch nicht, obwohl er,  den großen Mann ahnend, solange er lebte das Zimmer, in dem dieser in jener Nacht ruhte, unangetastet ließ. Wer heute von Cosseria  über die Schlucht von Cadibona das Meer betrachtet, sieht die grauen Umrisse eines zerstörten Gebäudes, das ursprünglich an diesem hierzu  prädestinierten Ort als Wachturm erbaut wurde und die Festung Altare, ein klangvoller Name für alle jene, die dort sterben mussten im Angesicht der Feinde, die in feindlicher Absicht versuchten, dort vorbeizukommen. Fast zu Füßen der Festung, in dem Dorf, dass der Festung ihren Namen gab, lebte ein altes, reiches arbeitsames Volk von Glasbläsern.  Sie stammen von einem Zug flandrischer  Erstgeborener ab, die sich vor Jahrhunderten in dieser Schlucht niedergelassen hatten, als die Wälder noch unberührt waren. (Die Stadt Altare in Ligurien ist tatsächlich berühmt für ihre Glashütten, es gibt dort auch ein Glasmuseum.  Die Aussage, dass die Glasverarbeitung sich zurückführen lässt auf Einwanderer aus Flandern ist allerdings eine Legende. Genauso wahrscheinlich ist, dass sie von Benedektiner Mönchen eingeführt wurde, die ihr Wissen an die Bewohner der Gegend weitergaben.) Von diesen hatten sie auch noch etwas von den feinen Gesichtszügen, den  Lauten  ihrer Sprache und den Fleiß geerbt.  Welche Freude war es für sie und für die anderen, wenn der alte Kanonier, gelangweilt, heute genauso wie morgen,  die Langeweile vermittelt, die man da oben spürte!  Der Arbeiter, vor Schweiß triffend, blies aus der Glasmacherpfeife eine glühende Kristallkugel heraus und so lange wie man braucht, um mit den Augen zu zwinkern dauert es, bis daraus eine anmutige Form entstand.  „Sie dauert an, wird weiter andauern, eure Langeweile! Hier hast du  ein schönes Glas,  trinken wir auf den Frieden!“ Montenotte und der Mann des Schicksals Vor etwa dreißig Jahren schrieb das französische Konsolat von Genua an die Gemeinde, zu der Montenotte gehörte , um in Erfahrung zu bringen,  ob das  Denkmal, dass Napoleon im Jahre 1805 hatte errichten lassen, noch existiere und in welche Zustand es sei  oder ob es bereits zerstört wurde und wann.  Am sechsten Floréal (Zeitrechnung französische Revolution entspricht April / Mai) des Jahres dreizehn republikanischer Zeitrechnung war in den Zeitungen ein Brief von ihm an Berthier erschienen, in welchem er das  an irgendeiner Stelle da oben,  vielleicht auf dem Gipfel des Berges Legino, wo mit 1200 Grenadieren der 117 Halbbrigade, die ab diesem Tag die Tapfere hieß, der Kolonell  Rampon gegen das gesamte Herr von d‘ Argenteau stand, vom Abend bis zum Morgen und so den Ausgang der siegreichen Schlacht am nächsten Tag bestimmte,  zu errichtende Denkmal beschrieb.   Hatte General Buonaparte schon in Montenotte an das Imperium gedacht?  Es scheint nicht so, denn damals beschrieb er noch nicht, was er gründete und erst als er Imperator war,  erklärte er das Land zum Staatsbesitz und fing an Stätten der Erinnerung zu sammeln.  Was seine  Anordnung des Denkmals angeht, so wurde es nie gebaut. Nur die Schanze aus Stein auf dem Berg Legino, die von den Grenadieren von Rampo erbaut worden war und die die Bergbewohner noch heute respektieren sind da. Noch heute nennen sie sie die Schanze. Nur das. Doch wer gewagt hätte zu sagen, dass das neue Italien  freiwillig ein Denkmal da oben errichten würde, was wäre dem erwidert worden?  Dennoch fühlten sie vage, dass die Hoffnung unserer  Nation genau mit dem Sieg Napoleons da unten begann. Die, die vor einem halben Jahrhundert alt waren, erinnerten sich noch, dass sie als Jugendliche haben sagen hören, dass dieser Mann, diese Franzosen nach Italien gekommen waren, um die zweihunderttausend Taugenichtse  zum Arbeiten zu bringen.  Und vor ihnen hatten dies ihre Väter dies gehört, die von diesen Ausspruch ausgehend dann gesehen haben, wie man anfing,  die Worte in Taten umzusetzen und so weiterzumachen.  Es war also nichts unpatriotisches an einem Denkmal welches lediglich besagte: „Hier, Krieger von italienischem Geist, hat der General Buonaparte das neue Zeitalter eröffnet,  in welchem die Heimat seiner Ahnen, sich schließlich selber fand.“ In Montenotte war Buonaparte bereits der Mann des Schicksals des nächsten Jahres. Er berührte die Seiten von Alberto Sorel (Französischer Historiker und Schriftsteller geb. 1750 in Touraine, gest. 1810 in Venedig). „Am 12. Vendémiaire (Kalender französische Revolution  22. September bis 21. Oktober)  1795, also am 4. Oktober 1795, glaubten die gemäßigten Kräfte des Nationalkonvents nun den Sieg in der Hand über die letzten Männer des  Terrors in der Hand zu halten. (gemeint ist die Terrorherrschaft Robespierres, die am 28. Juli 1794 mit dessen Hinrichtung endete).  Nun erhob sich die Fraktion von Lepelletier.  General Menou , der die Kräfte der Nationalversammlung kommandierte, ließ sich überrumpeln. Deshalb fassten die anderen Truppen, dem Beispiel von Lepelletier folgend, Mut und fassten den Entschluss, am nächsten Tag zum Konvent zu marschieren, um ihn abzusetzen.  Der Konvent besaß nur 5000 sichere Männer mit 40 Kanonen. Die anderen Truppen hatten 40 000 Nationalgardisten. Deshalb übergab zur Verteidigung  der Konvent den Oberbefehl über die eigenen Truppen Barras.“ „Dieser vierzigjährige ehemalige Herzog aus der Provence, der in seiner Jugend Offizier der Marine gewesen war und dann an der Erstürmung der Bastille teilgenommen hatte und hatte dann, als Mitglied des Nationalkonvents für die Hinrichtung des Königs gestimmt.  Nach der Hinrichtung der Girondisten,  Hebert und Dantons sah er sich dann in direktem Kampf mit Robespierre, den er gewann. Am 12. Vendémiaire war er Präsident des Nationalkonvents. (Der ganze Abschnitt ist aus historischer Sicht etwas wirr. Andeuten will Giuseppa Abba, dass Napoleon selbst, der an den beschriebenen Ereignissen beteiligt war, zu diesem Zeitpunkt so unbedeutend ist, dass er von Sorel nicht genannt wird. Richtig an dem Abschnitt ist, dass es um diesen Zeitraum, genau genommen am 5. Oktober 1795, zu einem Aufstand von Rechts kam. Paul de Barras war zu diesem Zeitpunkt aber Mitglied des Wohlfahrtsausschusses, der nach dem Sturz Robespierres gebildet worden war, und Oberbefehlshaber der Armee des Innern. Da Barras keine Erfahrung mit der Artellerie hatte, rief er Napoleon, der den Aufstand niederschlug. Menou wiederum hatte in dieser Zeit einen ganz anderen Aufstand niedergeschlagen, nämlich einen von Links. Weniger erfolgreich war er bei der Niederschlagung des oben genannten Aufstands von Rechts, weswegen ja Napoleon gerufen wurde. Von welchem Lepetier hier die Rede ist, ist unklar. In der französischen Revolution spielt ein gewisser Louis-Michel Le Peletier de Saint-Fargeau eine Rolle. Der wurde aber am 20. Januar 1793, weil er für den Tod Ludwig XVI gestimmt hatte, von einem königstreuen Soldaten erdolcht.) An diesem Tag ergriff er entschlossen das Kommando der Kräfte über die der Konvent verfügen konnte, obwohl er spürte, dass er nicht über die Kenntnisse besaß, die er brauchte, um sie in dieser schrecklichen Situation, die am nächsten Tag eintreten würde, zu nutzen. Doch während der Debatte hatte er auf der Tribüne die Gestalt Napoleons entdeckt. Ihn kannte er schon von der Belagerung von Tolone und hatte im Jahr zuvor auch schon einige Male mit ihm geredet, als er Kommissär des Konvent beim Heer in Italien war. Er wusste, was in diesem Kopf, in dieser Brust verborgen sein konnte. Deshalb rief er ihn zu sich und bot ihm das Kommando über die Kräfte an, die er akzeptiert hatte. Buonaparte dachte ein bisschen nach. Mit Sicherheit wusste er, dass er sich in einer historischen Zeitenwende befand. Vielleicht fühlte er auch, dass dies seine Stunde  war, wo er das Glück bei den Haaren packen  und Frankreich und die Revolution retten musste. In den Memoiren von Sankt Helena finden wir den nachträglichen Bericht über die Gedanken, die ihm in diesem kurzen Moment durch den Kopf gingen, als Barras ihn fragte und er das schreckliche „Ja. Hier bin ich“ antwortete. „Wenn der Konvent unterliegt, was wird dann aus den großen Wahrheiten unserer Geschichte?“ Unsere Siege, unser Blut werden nichts anderes als Schandtaten mehr sein. Die Fremden, die wir besiegt haben, werden kommen, werden triumphieren und uns mit Verachtung überschütten. Ein unfähiges Volk (er meinte die Bourbonen), ein übermütiger und degenerierter Hof (er meinte die Emigranten) wird wieder erscheinen, triumphierend, uns unsere Verbrechen vorwerfen und dafür Rache nehmen. Uns wie Heloten regieren mit der Hand der Fremden. So würde die Vernichtung des Konvents die Stirn der Fremden mit Ruhm zieren und die Schande und Sklaverei des Vaterlandes besiegeln.“ Diese Worte sagte er zwanzig Jahre danach. Dennoch rief er sich damit genau die klarsichtige Vision wieder in Erinnerung, die er in diesem Gespräch mit Barras hatte. Tatsache ist, dass er am nächsten Tag  mit diesen fünftausend Mann und vierzig Kanonen, die vierzigtausen Nationalgardisten der Truppen aus den Straßen von Paris vertrieb. Die Geschichte duldet, das ist wohl wahr, keine Vermutungen. Doch wenn die Haltung der gemäßigten Republikaner obsiegt hätte und die letzten Repräsentanten des Konvents  unterdrückt worden wären, wieviele Schritte hätte die Königstreuen und die Fremdmächte dann noch machen müssen, um Frankreich wieder in das alte System zurückzuführen? „Buonaparte war noch ein Jakobiner, musste sich aber innerlich beglückwünschen, dass er ein Jahr zuvor das Angebot des jüngeren  Robespierres, der ihn an die Seite seines allmächtigen Bruders stellen wollte, anstatt des Generals Henriot, dieses grotesken Soldaten, der in den Tagen des Thermidors die Brüder Robespierre und ihre ganze Gruppe in den Abgrund hatte marschieren lassen, nicht angenommen hatte. Damals hatte Buonaparte zu seinem eigenen Bruder, der ihn zur Annahme des Angebotes von Robespierre überreden wollte, gesagt: „Der einzige ehrenvolle Posten für mich ist bei der Armee. Wir müssen noch etwas Geduld haben, bald werde ich Paris regieren.“ „Und jetzt befahl er da tatsächlich. Dieser 13. Vendémiaire war der Begann seines Glückes. (Die Interpretation ist reichlich eigenwillig. Die Machtergreifung Napoleons war am 18 Brumaire, oder am 19. November 1799. Nach dieser Logik hätte man jedes Ereignis, das zufällig oder nicht seine Laufbahn begünstigte, als Beginn selbiger nehmen können.) Vorbei waren die Zeiten der Armut, der wechselhaften Schicksalschläge, des fast Scheiterns, die er jedoch immer wieder aus eigener Kraft oder mit fremder Hilfe überwinden konnte. Mit der Hilfe von Doulcet zum Beispiel, Direktor der Armeeführung. Diesem zum Beispiel hatte „kleine Italienier“, wie er ihn nannte, „blass,  kränkelnd, aber einzigartig durch die Kühnheit seines Blickes und die energische Strenge seiner Sprache“ gefallen und er vertraute ihm völlig. Und in den Büros des Kriegsministeriums hatte Buonaparte die hervorragenden Pläne zur Invasion des Potals ausgearbeitet, die er selbst dann in den Jahren 1796-97 ausführte.“ „Die Eroberung Italiens war schon eine grundlegende Idee des Direktoriums unter Robbespiere,  doch es scheint, dass es der  Einfluss von Buonaparte war, der ihn dazu inspirierte. Wie dem auch immer sei, er war es, auf den der Ruhm fiel. Nach Italien gehen und  Möglichkeiten finden, dort unter den Bauern sein Lager aufschlagen und den Reichtum bei den Adligen zu erbeuten, das war die Idee. „Den Feind besiegen und ihn die Rechnung bezahlen lassen, hieß zweimal siegen“, hatte Baudot dem Konvent 1794 gesagt. Buonaparte wusste dies, er musste es nicht von ihm lernen.“ Wie gut hatte dies schon der große Historiker Sorel ausgedrückt! Hier was er sagte. „Er, Buonaparte, war fünfundzwanzig Jahre alt. Er war als Korse geboren worden, wurde durch die Revolution mit Frankreich verbunden. Im Blut hatte er die primitiven Leidenschaften, die diese Revolution hervorgebracht hatte. Zu dem Hass und dem Neid des niederen Adels auf die Aristokratie gesellte sich der ehrgeizige Stolz des souveränen Volkes. Er gehörte nicht zu jenen, die die Revolution gemacht hatten, sondern zu jenen anderen, für die sie gemacht worden war.“ Er verkörperte sie in sich selbst und wird sagen: „Ich bin die Revolution!“  Er fühlte die Leidenschaften des Franzosen: Hass auf die Fremden, Hass auf England, den Willen zu Erobern, die Liebe zum Ruhm. Er machte sich selbst zum Glanz des Ruhmes, sich selbst zum Glanz der Republik und mit diesem Glanz durchdringt er wird er das Volk und das französische Herr durchdringen. Doch indem er es durchdringt, beherrscht er es.“ Nicht er, sondern der Mann der er sein wird, wurde 1790, in den ersten Zeiten der Revolution, als diese noch nachsichtig und mild war,  vorhergesagt. Rviarol, einer der Mitglieder der Legislative, hatte gesagt: „Entweder hat der König ein Heer, oder das Heer hat einen König. Revolutionen enden immer im Schwert. Silla, Cesare, Cromwell.“ Und 1791 sprach ein Sekretär von Mirabeau einen Gedanken aus, der seines Herrn würdig war. „Da eine Dynastie nur Misstrauen einflößt, wird man ihr einen glücklichen Soldaten einem durch Zufall hervorgebrachten Diktator vorziehen.“ Die große Katharina von  Russland schrieb: „Cäsar wird kommen!“ Und 1794, erahnend, dass für den, der verdientermaßen etwas wagt, eine gute Zeit naht, schrieb sie: „Wenn Frankreich aus diesem Tal herauskommt, wird es kräftiger als jemals sein, wird gehorchen wie ein Lamm. Doch hierfür bedarf es eines mutigen Mannes, der seine Zeitgenossen und vielleicht sogar sein Jahrhundert überragt. Ist dieser schon geboren worden? Hiervon hängt nun alles ab.“ Das waren die hellsichtigen, geradezu prophetischen Worte der Zarin. Sie starb zu früh, um sich ihrer Prophezeiung rühmen zu können und zu sehen, dass dieser Mann geboren worden war. Doch wer weiß? Das sie im November 1796 gestorben ist, wird sie in vielleicht ihm Sieger von Montenotte erkannt haben.

Buonaparte war aus dem Stoff von Machiavelli. „Lasst mich in eure Dienste treten und sei es auf einem noch so niedrigen Niveau“, sagte dieser zu den Medici, als er sich anschickte, ihnen zu dienen und sie groß zu machen und mit ihnen die Heimat. „Lasst es meine Sorge sein, wie ich dann aufsteige.“ Das Blut Buonapartes kam aus Florenz. Am 13. Vendémiaire setzte er den Fuß in den Steigbügel und ließ ihn nicht mehr los, bis er, sich an der Mähne festhaltend, im Sattel des Pferdes war, dass dann durch ganz Europa unter seine Hufe nahm. In Italien, so fatal das scheinen mag, nahm alles seinen Anfang. Bei uns nahm seine Herschergestalt Form an. Nach der Schlacht von Lodi ein bisschen und nach der von Arcola offensichtlich, er hörte überhaupt nicht mehr auf die Befehle die ihm vom Direktorium kamen. Und wer bei uns hätte gedacht, dass unser Land in den mittleren Schichten der Gesellschaft so bereit war für die große Umwälzung. Es gab sogar die Propagandisten der Jakobiner, die eine Revolution, sogar eine gewaltsame, hingenommen hätten. Viel zahlreicher waren natürlich die, die eine Republik wünschten, die keine Schuld trägt am Blutvergießen und Terror. Die italienischen Patrioten waren überzeugt, dass Italien aufgerufen sei, das Joch abzuschütteln, sein Schicksal selbst in die Hand zu nehmen, selbst die obersten Platz zu besetzen. Von diesen Hoffnungen befeuert, verkündeten sie, dass für Italien der Moment gekommen sei, mit Frankreich und dem Habsburger Reich gleichzuziehen, so wie sie schon in der Kultur und der Bildung mit diesen gleichgezogen hatten. Und da die Freiheit nur mit einem allgemeinen Umsturz erobert werden konnte, vertraten sie die Ansicht, dass man die Katastrophe herbeizwingen müssen, anstatt deren Auswirkungen auszuweichen. Buonaparte wusste diese Stimmungen für sich zu nutzen, doch damals allein zum Nutzen Frankreichs. Er liebte Italien, doch mit dem sicheren Instinkt, den er in hohem Maße hatte, konnte er Italien nicht weit genug die Hand reichen um die Zukunft zu packen und sie Gegenwart werden zu lassen. Zuviel von der Fadenspindel musste erst noch aufgerollt werden um ein neues Leben zu spinnen und zu weben. Deswegen machte er aus Italien eine Reservekammer an Menschen und Geld zum Wohlergehen Frankreichs. Durch die Schule des Krieges würde Italien es sich abgewöhnen, schweigend zu dulden und aus der Zersplitterung, durch welche  Italien sich jahrhundertelang erniedrigt hatte, heraus neu erschaffen, würde es für die Zukunft zu sich kommen. Dass er Italien liebe, geht aus einer Arbeit hervor, die er in Sankt Helena diktierte und dann mit eigener Hand korrigierte. Er behandelt dort die Gestalt der Halbinsel unter dem Titel: „Die Gebiete Italiens.“ In der Beschreibung, die er dort von Italien macht, nimmt alles, die Ebenen, die Flussläufe, die Bergmassive Gestalt an und das Wort wird zur Sache. Ich glaube, dass diese Beschreibung, mit der Hingabe, der suggestiven Kraft,  mit der diese Zeilen  zur Verteidigung Italiens geschrieben wurden, ganz so, als spräche er nicht von einem Italien, wie er es verlassen hatte, sondern von einem Italien, wie wir es heute haben, ein vereinte Nation,  von niemandem übertroffen worden ist. Er ahnte dies als er schrieb: „Italien scheint dazu bestimmt ein große und mächtige Nation zu bilden, doch hat sie in ihrer geografischen Struktur einen grundlegenden Mangel, den man als den Grund der Missgeschicke, die es ertragen musste, ansehen kann. Dieser besteht darin, dass es in viele Monarchien und unabhängige Republiken zerbröselt. Die Länge ist nicht proportional zur Breite. Wenn der Berg Velino (Berg in Mittelitalien auf den Apenninen, 2486 Meter über dem Meer, drittgrößter Berg der Apenninen), der sich ungefähr auf der Höhe von Rom befindet, die Grenze wäre und wenn das ganze Gebiet, das sich zwischen diesem Berg und dem ionischen Meer befindet, Sizilien eingeschlossen, sich zwischen Sardinien, Korsika, Genua und der Toskana befände, dann hätte Italien ein Zentrum, dass  zu allen Seiten seiner Peripherie etwa den gleichen Abstand hätte. Dann gäbe es eine Einheit zwischen den Strömungen, Bräuchen, Klima und lokalen Interessen.“ Dann zählt er, aus der Sicht eines Mannes, der noch nicht wissen konnte, wie diese später von den Dampfmaschinen und dem Telegraph beseitigt würden,  minutiös die Nachteile auf, die sich aus dieser Beschaffenheit ergeben. Doch zuversichtlich bezeichnet er Italien nichtsdestotrotz als Nation: „Die gemeinsamen Bräuche, die Sprache, die Literatur wird zu einem früheren oder späteren Zeitpunkt in der Zukunft dazu führen, dass alle Bewohner unter einer Regierung vereinigt werden.“ Um zu existieren (merkt Napoleon an) ist es vor allem nötig, dass Italien seine Seeherrschaft ausbaut, damit es die Hoheit auf seinen Inseln hat und seine Küsten verteidigen kann. Und er fügt an, dass „keine Nation in Europa in einer besseren Position sei, eine Seemacht zu werden.“ Er rechnet aus, dass Italien über ein Drittel mehr Küste verfügt als Spagnien und die Hälfte mehr als Frankreich. Er sagt, dass Italien mehr Matrosen hervorbringen könne, als jede der zwei genannten Nationen, weil  nicht nur die Bewohner der  Küste, sondern auch die der Halbinsel, im Innern, so vom Meer beeinflusst sind, dass Städte wie Lucca, Pisa, Ravenna, Rom ebenfalls als maritime Städte bezeichnet werden können. Und er kündigt auch schon an, welches die großen Häfen sein werden. Der von Spezia ist am besten geeignet für weltweite Schiffahrt. Taranto sieht er perfekt positioniert für die Beherrschung der Levante (des Ostens. Taranto liegt am oberen Teil des Stiefelabsatzes, wenn man Italien als stiefelförmig sieht). Von Venedig sagt er, dass es alles habe und beglückwünschte sich fast zu den Arbeiten, die er dort am Kanal Malamocco hatte durchführen lassen. Venedig! Ah! Auch für ihn war Venedig wegen der Art und Weise wie er es als Weltbeherrscher und und  Verramscher der Völker im Jahre 1797 behandelt hatte ein Nadelstich. Als er nun an diese Periode seines Lebens und an die Vorwürfe, die ihm von den Italienern gemacht wurden, zurückdachte, beklagte er sich auf Sankt Helena, dass er von den Italienern nicht verstanden worden sei. Diese, so sagte er im Gespräch mit seinen Generälen, hätten nie erkannt, dass Venedig, so stolz auf seine elfhundertjährige ruhmreiche Vergangenheit, sich nie damit abgefunden hätte, eine Stadt der Provins Cisalpina zu werden mit Milano als Hauptstadt. Indem er sie Österreich gab, ließ er sie die Sklaverei unter fremder Herrschaft erdulden. Eine harte Schule, in welcher sie schnell Demut gelernt hätte, um so wieder, in einer niedrigeren Position,  italienisch zu werden. Bei der ersten Gelegenheit, hätte sie diese Position eingenommen, wie sie sie tatsächlich neun Jahre später im Vertrag von Petersburg eingenommen hatte. Eine geistreiche Rechtfertigung, auf die man leicht antworten könnte „rückwärtsgewande Prophezeiung“. Dies jedoch wäre eine grobe Beleidigung für den Geist des überragenden Mannes. Sicher war er 1797 noch nicht in Austerlitz (Schlacht bei Austerlitz 2.Dezember 1805. Napoleon siegte über Russland und Österreich), doch in einem Kopf wie dem seinen und wohlwissend mit welchem Frankreich er rechnen konnte, ist es gut möglich, dass das, was der Gedanke, welchen er  in Sankt Helena aussprach, sich geändert haben konnte, wie er sich dann ja auch tatsächlich im Raum und in der Zeit geändert hatte.

Es gab, was den Vorwurf anging, dass er Italien nicht geeinigt habe, noch etwas anderes, über das er sich beklagte. Hatte er nicht seinem eigenen Sohn des Titel König von Rom verliehen? (Gemeint ist Napoleon II, geb. am 20. März 1811, gest. 22. Juli 1832. Der wurde schon gleich in der Wiege zum König von Rom erklärt. Relevant wurde das allerdings nie, da Papa Napoleon ja am 22. Juni 1815 abdankte und nach St. Helena geschickt wurde.) Wenn das Schicksal es ihm vergönnt hätte in ganz Europa zwanzig Jahre in sicherem Frieden zu herrschen, wie das gut möglich gewesen wäre und dann der König von Rom volljährig geworden wäre, hätte er ihn dem Imperium einverleibt und dann hätten die Italiener gesehen, was aus Italien geworden wäre. Dies in einem Moment zu lesen, wo das Jahrhundert, das noch so voll war von ihm gerade vorbei war, erfüllt das Herz mit einer tiefen Traurigkeit. Hatte Frankreich wirklich einen Mann nötig, der in der Lage war Europa zu bezwingen und alle Gesetze, alle  Gebräuche und  das Bewußtsein der Menschen mit den materiellen und geistigen Eroberungen der Revolution zu durchdringen?

Er war dieser Mann! Was erorbert worden war, wurde durch das Wirken der Zeit und die Arbeit der Generationen verändert. Und jetzt hat, wie Sorel sagt, die Demokratie aus dem Jahre 1795, geprägt noch vom Konzept der Macht eines Staates und der ruhmreichen Kriege, ihre Verwandlung hin zu einer wahrhaft republikanischen Demokratie abgeschlossen, denn der Frieden ist die Existenzbedingung dieser Demokratie, die ihre Größe im eigenen Fortschritt sucht und sich mehr um die Arbeit, die Gerechtigkeit und die Freiheit kümmert, als um die Beherrschung und Erorberung. Diese hat sich nun an die Spitze Europas gesetzt.







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