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III: La casa e la talpa
Ho detto troppo presto, in principio, che ho conosciuto mio padre. Non l'ho conosciuto.
Avevo quattr'anni e mezzo quand'egli morì. Andato con un suo trabaccolo in Corsica, per
certi negozii che vi faceva, non torno più, ucciso da una perniciosa, in tre giorni, a trentotto
anni. Lasciò tuttavia nell'agiatezza la moglie e i due figli: Mattia (che sarei io, e fui) e Roberto,
maggiore di me di due anni.
Qualche vecchio del paese si compiace ancora di dare a credere che la ricchezza di mio
padre (la quale pure non gli dovrebbe più dar ombra, passata com'è da un pezzo in altre
mani) avesse origini - diciamo così - misteriose.
Vogliono che se la fosse procacciata giocando a carte, a Marsiglia, col capitano d'un vapore
mercantile inglese, il quale, dopo aver perduto tutto il denaro che aveva seco, e non doveva
esser poco, si era anche giocato un grosso carico di zolfo imbarcato nella lontana Sicilia
per conto d'un negoziante di Liverpool (sanno anche questo! e il nome?), d'un negoziante
di Liverpool, che aveva noleggiato il vapore; quindi, per disperazione, salpando, s'era
annegato in alto mare. Così il vapore era approdato a Liverpool, alleggerito anche del
peso del capitano. Fortuna che aveva per zavorra la malignità de' miei compaesani.
Possedevamo terre e case. Sagace e avventuroso, mio padre non ebbe mai pe' suoi
commerci stabile sede: sempre in giro con quel suo trabaccolo, dove trovava meglio e più
opportunamente comprava e subito rivendeva mercanzie d'ogni genere; e perché non fosse
tentato a imprese troppo grandi e rischiose, investiva a mano a mano i guadagni in terre
e case, qui, nel proprio paesello, dove presto forse contava di riposarsi negli agi faticosamente
acquistati, contento e in pace tra la moglie e i figliuoli.
Così acquistò prima la terra delle Due Riviere ricca di olivi e di gelsi, poi il podere della
Stìa anch'esso riccamente beneficato e con una bella sorgiva d'acqua, che fu presa quindi
per il molino; poi tutta la poggiata dello Sperone ch'era il miglior vigneto della nostra contrada,
e infine San Rocchino, ove edificò una villa deliziosa. In paese, oltre alla casa in cui
abitavamo, acquistò due altre case e tutto quell'isolato, ora ridotto e acconciato ad arsenale.
La sua morte quasi improvvisa fu la nostra rovina. Mia madre, inetta al governo dell'eredità,
dovette affidarlo a uno che, per aver ricevuto tanti beneficii da mio padre fino a cangiar
di stato, stimo dovesse sentir l'obbligo di almeno un po' di gratitudine, la quale, oltre lo zelo
e l'onestà, non gli sarebbe costata sacrifizii d'alcuna sorta, poiché era lautamente remunerato,
Santa donna, mia madre! D'indole schiva e placidissima, aveva così scarsa esperienza
della vita e degli uomini! A sentirla parlare, pareva una bambina. Parlava con accento nasale
e rideva anche col naso, giacché ogni volta, come si vergognasse di ridere, stringeva
le labbra. Gracilissima di complessione, fu, dopo la morte di mio padre, sempre malferma
in salute; ma non si lagnò mai de' suoi mali, né credo se ne infastidisse neppure con se
stessa, accettandoli, rassegnata, come una conseguenza naturale della sua sciagura.
Forse si aspettava di morire anch'essa, dal cordoglio, e doveva dunque ringraziare Iddio
che la teneva in vita, pur così tapina e tribolata, per il bene dei figliuoli.
Aveva per noi una tenerezza addirittura morbosa, piena di palpiti e di sgomento: ci voleva
sempre vicini, quasi temesse di perderci, e spesso mandava in giro le serve per la vasta
casa, appena qualcuno di noi si fosse un po' allontanato.
Come una cieca, s'era abbandonata alla guida del marito; rimastane senza, si sentì sperduta
nel mondo. E non uscì più di casa, tranne le domeniche, di mattina per tempo, per
andare a messa nella prossima chiesa, accompagnata dalle due vecchie serve, ch'ella
trattava come parenti. Nella stessa casa, anzi, si restrinse a vivere in tre camere soltanto,
abbandonando le molte altre alle scarse cure delle serve e alle nostre diavolerie.
Spirava, in quelle stanze, da tutti i mobili d'antica foggia, dalle tende scolorite, quel tanfo
speciale delle cose antiche, quasi il respiro d'un altro tempo; e ricordo che più d'una volta
io mi guardai attorno con una strana costernazione che mi veniva dalla immobilità silenziosa
di quei vecchi oggetti da tanti anni lì senz'uso, senza vita.
Fra coloro che più spesso venivano a visitar la mamma era una sorella di mio padre, zitellona
bisbetica, con un pajo d'occhi da furetto, bruna e fiera. Si chiamava Scolastica. Ma si
tratteneva, ogni volta, pochissimo, perché tutt'a un tratto, discorrendo, s'infuriava, e scappava
via senza salutare nessuno. Io, da ragazzo, ne avevo una gran paura. La guardavo
con tanto d'occhi, specialmente quando la vedevo scattare in piedi su le furie e le sentivo
gridare, rivolta a mia madre e pestando rabbiosamente un piede sul pavimento:
- Senti il vuoto? La talpa! la talpa!
Alludeva al Malagna, all'amministratore che ci scavava soppiatto la fossa sotto i piedi.
Zia Scolastica (l'ho saputo dipoi) voleva a tutti i costi che mia madre riprendesse marito. Di
solito, le cognate non hanno di queste idee né dànno di questi consigli. Ma ella aveva un
sentimento aspro e dispettoso della giustizia; e più per questo, certo, che per nostro amore,
non sapeva tollerare che quell'uomo ci rubasse così, a man salva. Ora, data l'assoluta
inettitudine e la cecità di mia madre, non ci vedeva altro rimedio, che un secondo marito. E
lo designava anche in persona d'un pover'uomo, che si chiamava Gerolamo Pomino.
Costui era vedovo, con un figliuolo, che vive tuttora e si chiama Gerolamo come il padre:
amicissimo mio, anzi più che amico, come dirò appresso. Fin da ragazzo veniva col padre
in casa nostra, ed era la disperazione mia e di mio fratello Berto.
Il padre, da giovane, aveva aspirato lungamente alla mano di zia Scolastica, che non aveva
voluto saperne, come non aveva voluto saperne, del resto, di alcun altro; e non già perché
non si fosse sentita disposta ad amare, ma perché il più lontano sospetto che l'uomo
da lei amato avesse potuto anche col solo pensiero tradirla, le avrebbe fatto commettere -
diceva - un delitto. Tutti finti, per lei, gli uomini, birbanti e traditori. Anche Pomino? No, ecco:
Pomino, no. Ma se n'era accorta troppo tardi. Di tutti gli uomini che avevano chiesto la
sua mano, e che poi si erano ammogliati, ella era riuscita a scoprire qualche tradimento, e
ne aveva ferocemente goduto. Solo di Pomino, niente; anzi il pover'uomo era stato un
martire della moglie.
E perché dunque, ora, non lo sposava lei ? Oh bella, perché era vedovo! era appartenuto
a un'altra donna, alla quale forse, qualche volta, avrebbe potuto pensare. E poi perché...
via! si vedeva da cento miglia lontano, non ostante la timidezza: era innamorato, era innamorato...
s'intende di chi, quel povero signor Pomino!
Figurarsi se mia madre avrebbe mai acconsentito. Le sarebbe parso un vero e proprio sacrilegio.
Ma non credeva forse neppure, poverina, che zia Scolastica dicesse sul serio; e
rideva in quel suo modo particolare alle sfuriate della cognata, alle esclamazioni del povero
signor Pomino, che si trovava lì presente a quelle discussioni, e al quale la zitellona
scaraventava le lodi più sperticate.
M'immagino quante volte egli avrà esclamato, dimenandosi su la seggiola, come su un arnese
di tortura:
- Oh santo nome di Dio benedetto!
Omino lindo, aggiustato, dagli occhietti ceruli mansueti, credo che s'incipriasse e avesse
anche la debolezza di passarsi un po' di rossetto, appena appena, un velo, su le guance:
certo si compiaceva d'aver conservato fino alla sua età i capelli, che si pettinava con grandissima
cura, a farfalla, e si rassettava continuamente con le mani.
Io non so come sarebbero andati gli affari nostri, se mia madre, non certo per sé ma in
considerazione dell'avvenire dei suoi figliuoli, avesse seguìto il consiglio di zia Scolastica e
sposato il signor Pomino. E' fuor di dubbio però che peggio di come andarono, affidati al
Malagna (la talpa!), non sarebbero potuti andare.
Quando Berto e io fummo cresciuti, gran parte degli averi nostri, è vero, era andata in fumo;
ma avremmo potuto almeno salvare dalle grinfie di quel ladro il resto che, se non più
agiatamente, ci avrebbe certo permesso di vivere: senza bisogni. Fummo due scioperati;
non ci volemmo dar pensiero di nulla, seguitando, da grandi, a vivere come nostra madre,
da piccoli, ci aveva abituati.
Non aveva voluto nemmeno mandarci a scuola. Un tal Pinzone fu il nostro ajo e precettore.
Il suo vero nome era Francesco, o Giovanni, Del Cinque; ma tutti lo chiamavano Pinzone,
ed egli ci s'era già tanto abituato che si chiamava Pinzone da sé.
Era d'una magrezza che incuteva ribrezzo; altissimo di statura; e più alto, Dio mio, sarebbe
stato, se il busto, tutt'a un tratto quasi stanco di tallir gracile in sù, non gli si fosse curvato
sotto la nuca in una discreta gobbetta, da cui il collo pareva uscisse penosamente, come
quel d'un pollo spennato, con un grosso nottolino protuberante, che gli andava sù e
giù. Pinzone si sforzava spesso di tener tra i denti le labbra, come per mordere, castigare
e nascondere un risolino tagliente, che gli era proprio; ma lo sforzo in parte era vano, perché
questo risolino, non potendo per le labbra così imprigionate, gli scappava per gli occhi,
più acuto e beffardo che mai.
Molte cose con quegli occhietti egli doveva vedere nella nostra casa, che né la mamma né
noi vedevamo. Non parlava, forse perché non stimava dover suo parlare, o perché - com'io
ritengo più probabile - ne godeva in segreto, velenosamente.
Noi facevamo di lui tutto quello che volevamo; egli ci lasciava fare; ma poi, come se volesse
stare in pace con la propria coscienza, quando meno ce lo saremmo aspettato, ci tradiva.
Un giorno, per esempio, la mamma gli ordinò di condurci in chiesa; era prossima la Pasqua,
e dovevamo confessarci. Dopo la confessione, una breve visitina alla moglie inferma
del Malagna, e subito a casa. Figurarsi che divertimento! Ma, appena in istrada, noi due
proponemmo a Pinzone una scappatella: gli avremmo pagato un buon litro di vino, purché
lui, invece che in chiesa e dal Malagna, ci avesse lasciato andare alla Stìa in cerca di nidi.
Pinzone accettò felicissimo, stropicciandosi le mani, con gli occhi sfavillanti. Bevve; andammo
nel podere; fece il matto con noi per circa tre ore, ajutandoci ad arrampicarci su gli
alberi, arrampicandocisi egli stesso. Ma alla sera, di ritorno a casa, appena la mamma gli
domandò se avevamo fatto la nostra confessione e la visita al Malagna:
- Ecco, le dirò... - rispose, con la faccia più tosta del mondo; e le narrò per filo e per segno
quanto avevamo fatto.
Non giovavano a nulla le vendette che di questi suoi tradimenti noi ci prendevamo. Eppure
ricordo che non eran da burla. Una sera, per esempio, io e Berto, sapendo che egli soleva
dormire, seduto su la cassapanca, nella saletta d'ingresso, in attesa della cena, saltammo
furtivamente dal letto, in cui ci avevano messo per castigo prima dell'ora solita, riuscimmo
a scovare una canna di stagno, da serviziale, lunga due palmi, la riempimmo d'acqua saponata
nella vaschetta del bucato; e, così armati, andammo cautamente a lui, gli accostammo
la canna alle nari - e zifff! -. Lo vedemmo balzare fin sotto al soffitto.
Quanto con un siffatto precettore dovessimo profittar nello studio, non sarà difficile immaginare.
La colpa però non era tutta di Pinzone; ché egli anzi, pur di farci imparare qualche
cosa, non badava a metodo né a disciplina, e ricorreva a mille espedienti per fermare in
qualche modo la nostra attenzione. Spesso con me, ch'ero di natura molto impressionabile,
ci riusciva. Ma egli aveva una erudizione tutta sua particolare, curiosa e bislacca. Era,
per esempio, dottissimo in bisticci: conosceva la poesia fidenziana e la maccaronica, la
burchiellesca e la leporeambica, e citava allitterazioni e annominazioni e versi correlativi e
incatenati e retrogradi di tutti i poeti perdigiorni, e non poche rime balzane componeva egli
stesso.
Ricordo a San Rocchino, un giorno, ci fece ripetere alla collina dirimpetto non so più quante
volte questa sua Eco:
In cuor di donna quanto dura amore? - (Ore). Ed ella non mi amò quant'io l'amai? -
(Mai). Or chi sei tu che sì ti lagni meco? - (Eco).
E ci dava a sciogliere tutti gli Enimmi in ottava rima di Giulio Cesare Croce, e quelli in sonetti
del Moneti e gli altri, pure in sonetti, d'un altro scioperatissimo che aveva avuto il coraggio
di nascondersi sotto il nome di Caton l'Uticense. Li aveva trascritti con inchiostro
tabaccoso in un vecchio cartolare dalle pagine ingiallite.
- Udite, udite quest'altro dello Stigliani. Bello! Che sarà? Udite:
A un tempo stesso io mi son una, e due, E fo due ciò ch'era una primamente. Una mi adopra
con le cinque sue Contra infiniti che in capo ha la gente. Tutta son bocca dalla cinta in
sue, E più mordo sdentata che con dente. Ho due bellichi a contrapposti siti, Gli occhi ho
ne' piedi, e spesso a gli occhi i diti.
Mi pare di vederlo ancora, nell'atto di recitare, spirante delizia da tutto il volto, con gli occhi
semichiusi, facendo con le dita il chiocciolino.
Mia madre era convinta che al bisogno nostro potesse bastare ciò che Pinzone c'insegnava;
e credeva fors'anche, nel sentirci recitare gli enimmi del Croce o dello Stigliani, che ne
avessimo già di avanzo. Non così zia Scolastica, la quale - non riuscendo ad appioppare a
mia madre il suo prediletto Pomino - s'era messa a perseguitar Berto e me. Ma noi, forti
della protezione della mamma, non le davamo retta, e lei si stizziva così fieramente che,
se avesse potuto senza farsi vedere o sentire, ci avrebbe certo picchiato fino a levarci la
pelle. Ricordo che una volta, scappando via al solito su le furie, s'imbatté in me per una
delle stanze abbandonate; m'afferrò per il mento, me lo strinse forte forte con le dita, dicendomi:
- Bellino! bellino! bellino! - e accostandomi, man mano che diceva, sempre più il
volto al volto, con gli occhi negli occhi, finché poi emise una specie di grugnito e mi lasciò,
ruggendo tra i denti:
- Muso di cane!
Ce l'aveva specialmente con me, che pure attendevo agli strampalati insegnamenti di Pinzone
senza confronto più di Berto. Ma doveva esser la mia faccia placida e stizzosa e quei
grossi occhiali rotondi che mi avevano imposto per raddrizzarmi un occhio, il quale, non so
perché, tendeva a guardare per conto suo, altrove.
Erano per me, quegli occhiali, un vero martirio. A un certo punto, li buttai via e lasciai libero
l'occhio di guardare dove gli piacesse meglio. Tanto, se dritto, quest'occhio non m'avrebbe
fatto bello. Ero pieno di salute, e mi bastava.
A diciott'anni m'invase la faccia un barbone rossastro e ricciuto, a scàpito del naso piuttosto
piccolo, che si trovò come sperduto tra esso e la fronte spaziosa e grave.
Forse, se fosse in facoltà dell'uomo la scelta d'un naso adatto alla propria faccia, o se noi,
vedendo un pover'uomo oppresso da un naso troppo grosso per il suo viso smunto, potessimo
dirgli: « Questo naso sta bene a me, e me lo piglio; » forse, dico, io avrei cambiato
il mio volentieri, e così anche gli occhi e tante altre parti della mia persona. Ma sapendo
bene che non si può, rassegnato alle mie fattezze, non me ne curavo più che tanto.
Berto, al contrario, bello di volto e di corpo (almeno paragonato con me), non sapeva staccarsi
dallo specchio e si lisciava e si accarezzava e sprecava denari senza fine per le cravatte
più nuove, per i profumi più squisiti e per la biancheria e il vestiario. Per fargli dispetto,
un giorno, io presi dal suo guardaroba una marsina nuova fiammante, un panciotto elegantissimo
di velluto nero, il gibus, e me ne andai a caccia così parato.
Batta Malagna, intanto, se ne veniva a piangere presso mia madre le mal'annate che lo
costringevano a contrar debiti onerosissimi per provvedere alle nostre spese eccessive e
ai molti lavori di riparazione di cui avevano continuamente bisogno le campagne.
- Abbiamo avuto un'altra bella bussata! - diceva ogni volta, entrando.
La nebbia aveva distrutto sul nascere le olive, a Due Riviere; oppure la fillossera i vigneti
dello Sperone. Bisognava piantare vitigni americani, resistenti al male. E dunque, altri debiti.
Poi il consiglio di vendere lo Sperone, per liberarsi dagli strozzini, che lo assediavano.
E così prima fu venduto lo Sperone, poi Due Riviere, poi San Rocchino. Restavano le case
e il podere della Stia, col molino. Mia madre s'aspettava ch'egli un giorno venisse a dire
ch'era seccata la sorgiva.
Noi fummo, è vero, scioperati, e spendevamo senza misura; ma è anche vero che un ladro
più ladro di Batta Malagna non nascerà mai più su la faccia della terra. E' il meno che io
possa dirgli, in considerazione della parentela che fui costretto a contrarre con lui.
Egli ebbe l'arte di non farci mancare mai nulla, finché visse mia madre. Ma quell'agiatezza,
quella libertà fino al capriccio, di cui ci lasciava godere, serviva a nascondere l'abisso che
poi, morta mia madre, ingojò me solo; giacché mio fratello ebbe la ventura di contrarre a
tempo un matrimonio vantaggioso.
Il mio matrimonio, invece...
- Bisognerà pure che ne parli, eh, don Eligio, del mio matrimonio?
Arrampicato là, su la sua scala da lampionajo, don Eligio Pellegrinotto mi risponde:
- E come no? Sicuro. Pulitamente...
- Ma che pulitamente! Voi sapete bene che...
Don Eligio ride, e tutta la chiesetta sconsacrata con lui. Poi mi consiglia:
- S'io fossi in voi, signor Pascal, vorrei prima leggermi qualche novella del Boccaccio o del
Bandello. Per il tono, per il tono...
Ce l'ha col tono, don Eligio. Auff! Io butto giù come vien viene.
Coraggio, dunque; avanti!
III. A MOLE SAPS OUR HOUSE
I was a bit hasty in stating, a moment ago, that I knew my father. I can hardly claim as much. He died
when I was four years old. He went on a trip to Corsica in the coaster of which he was captain and owner, and never came back—a matter of typhus, I believe, which carried him off in three days at the untimely age of thirty−eight. Nevertheless he left his family well provided for—his wife, that is, and two boys: Mattia (I that was in my first life), and Roberto, my elder by a couple of years. The old people of our village enjoy telling a story to the effect that my father's wealth had a rather dubious origin (though I don't see why they continue to hold that up against him, since the property has long since passed from our hands). As they will have it, he got his money at a game of cards with the captain of an English tramp−steamer visiting Marseilles. The Englishman had taken on a cargo at some port in Sicily, a
load of sulphur, it is specified, consigned to a merchant in Liverpool. (They know all the details, you see: Liverpool! Give them time to think and they'll tell you the name of the merchant and the street he lived on!) After losing to my father the large amount of cash he had on hand, the captain staked the sulphur—and again lost. The steamer arrived in Liverpool still further lightened by the weight of its master, who had jumped overboard at sea in despair. (Had it not been so well ballasted with the lies of my father's defamers, I dare say the ship would never have reached port at all!) Our fortune was mostly in landed property. An adventurer of a roving disposition, my father was utterly unable to tie himself down to a business in one place. With his boat we went around from harbor to harbor buying here and selling there, dealing in goods of every sort. But to avoid the temptation of too hazardous speculations, he always invested his profits in fields and houses about our native town; intending, I suppose,
to settle down there in his old age, and enjoy, with his wife and children about him, the fruits of his
imagination and hard work. He bought—oh, he bought a place called Le Due Riviere —“Shoreacres,” as it were, for its olives and its mulberry trees; he bought a farm we called “The Coops,” with a pond on it, which ran a mill; he bought the whole hillside of “The Spur”—the best vineyard in our district; he bought the San Rocchino estate, where he
built a delightful summer−house; in town he bought the mansion where we lived, two tenement houses, and the building that has now been fixed over for the armory. His sudden death was the ruin of us. Utterly ignorant of business matters, my mother was obliged to entrust our fortune to someone. She chose as her steward a man who had been enriched by my father and who, as anyone would have thought, would be loyal out of sheer gratitude, if for nothing else; all the more since a high salary for his services would make honesty a good policy also. A saintly soul, my mother was! Naturally timid and retiring, as trustful as a child, she knew nothing at all about this world and the people who live in it. After my father's death her health was never good; but she did not complain of her troubles to other people; and I doubt whether she lamented them much in her secret heart. She seemed to take them as a natural consequence of her great sorrow. The shock of that should have killed her—so she reasoned. Ought she not be thankful therefore to the good Lord who had vouchsafed her a few years more of life—be it indeed in pain and
suffering—to devote to her children? For us she had an almost morbid tenderness, full of worries and fancied terrors. She would scarcely let us out of her sight, for fear of losing us. Let her look up from her work to find one of us absent, and the servants
would be sent calling through the great mansion where we lived (the monument to my father's ambition) to bring us back to her side.
Merging her whole existence in that of her husband, she felt lost in the world when he was gone. She
never left the house except on Sundays—and then only to attend early mass in a church near by, in company with two maids of long service with us whom she treated as members of the family. Indeed, to simplify her life still further, she lived in three rooms of our big house, abandoning the others to the haphazard care of the maids and to the pranks of us two boys. I can still feel the impressiveness of those mysterious halls and chambers, all pretentiously furnished with massive antiques. The faded tapestries and upholstering gave off that peculiar odor of mustiness which is the breath, as it were, of ages that have died. More than once, I remember, I would look around, in strange consternation, upon those weirdly silent objects which had been sitting there for years and years motionless and unused! Among my mother's more frequent visitors was an aunt of mine on my father's side—Scolastica by name, a bilious, irritable old maid, tall, dark−skinned, stern of bearing, and with eyes like a ferret. Scolastica never stayed long at any one time. Invariably her visits ended in a quarrel which she would settle by stalking out of
the house, without saying goodbye to anyone, and slamming the doors behind her. I was terribly afraid of this redoubtable woman. I would sit in my chair without daring to stir, gazing at her with wide−opened eyes; especially when she would fly into a temper, turn furiously upon my mother, and stamping angrily on the floor, exclaim:
“Do you hear that? Hollow, hollow, underneath! Ah, that mole! That mole!” “That mole,” was Battista Malagna, the man in charge of our property, who, according to Scolastica, was boring the ground away beneath our feet. My aunt, as I learned years later, wanted mother to marry again at all costs. Ordinarily, the relatives of a dead husband do not give advice like this. But Scolastica had a severe and spiteful sense of the fitness of things. Her desire to thwart a thief, rather than any real affection for us, moved her to protest against Malagna's robbing us with impunity. Since mother was blind to faults in anybody, Scolastica saw no possible remedy except bringing a new man into the house. And she had even
picked her man—a poor devil, though a rich one, named Gerolamo Pomino. Pomino was a widower with one boy. (The boy, also a Gerolamo, is still living; in fact he is a friend,—I can hardly say a relative—of mine, as my story will show in due season. In those days Gerolamino, or “Mino” as we called him, would come to our house along with his father, to be the torment of brother Berto and me.) Years before, Gerolamo Pomino the elder had long aspired to the hand of my aunt Scolastica; but she had
spurned him as, for that matter, she had spurned every other offer in marriage. It was not so much her lack of an impulse to love. As she put it, the faintest suspicion on her part that a husband might betray her even in his thoughts would drive her to murder, yes, to murder downright! And who ever heard of a faithful husband? All males were hypocrites, deceivers, scalawags! “Even Pomino?” “Well, Pomino, no!”
One exception that proved the rule! But she had found that out too late. Carefully watching all the men
who had proposed to her and then married someone else, she had found them, in every case, playing tricks on their wives—discoveries that afforded her a certain ferocious satisfaction. But Pomino had always been
“straight.” In his case, the woman, rather, had been to blame. “So why don't you marry him, now, Cymanthia? Oh dear me! Just because he's a widower? Just because there has been a woman in his life, and he may give her a thought now and then that might otherwise have been for you? That's splitting things pretty fine! Besides, just look at him. You can see a mile away that he's in love; and there's no secret about who it is he wants, poor man!”
As though mother would ever have dreamed of a second marriage! A sacrilege that would have seemed in her eyes! I imagine that mother doubted, besides, whether Scolastica really meant everything she said; so when my aunt would start one of her long orations on the virtures of Pomino, mother would just laugh in her peculiar way. The widower was often present at such arguments. And I can remember him hitching about uncomfortably on his chair as Scolastica would overwhelm him in words of extravagant praise, and trying to relieve his torture by the most wicked of his oaths: “The dear Lord save us!” (Pomino was a dapper little old man with soft blue eyes. Berto and I thought there was just a suggestion of rouge on his cheeks. Certainly he was proud of keeping his hair so late in life; and he took the greatest pains in parting and brushing it. As he talked, he was continually smoothing it with his two hands.) I don't know how things would have turned out, had mother—not for her own sake, surely, but as a safeguard for the future of her children—taken Aunt Scolastica's advice and married Pomino. Surely nothing could have been worse than continuing with our affairs in the clutches of Malagna, “the mole.” By the time Berto and I were in long trousers, most of our inheritance had dwindled away; though something was still left—enough to keep us, if not in luxury, at least free from actual need. But we were careless youngsters, with
not one serious thought in our heads. Instead of coming to the rescue of the remnants of our fortune, we persisted in the kind of life to which our mother had accustomed us as boys. Never, for example, were we sent to school. We had a private tutor come to the house, a man called “Pinzone,” from the little pointed beard he wore. (His real name was Del Cinque; but everybody called him “Pinzone,” and I believe he grew so used to it that he ended by signing his name that way himself.) He was an absurdly tall and an absurdly lean fellow; and there is no telling how much taller he might have grown, had,
his head and neck not toppled forward from his shoul−ders in a stoop that became a real deformity. Another feature was an enormous Adam's apple that went up and down as he swallowed. Pinzone was always biting at his lips as though chastising a sarcastic little smile peculiar to him; a smile which, banished from his lips, managed to escape through two sharp eyes that ever showed a glittering mocking twinkle. That pair of eyes must have seen many things in our house to which mother and we two boys were blind. But Pinzone said nothing, perhaps because it was not his place to interfere; or, as I believe more probable, because he took a vindictive pleasure in the thought of us boys being as poor as he some day. For Berto and I ragged him unmercifully. As a rule he would let us do anything we chose; but then again, as though to ease
his conscience, he would tell on us at tunes when we least expected. Once, I remember, mother had asked him to take us to Church. It was Easter time, and we were to prepare for Confession. Thence we were to call at Malagna's house, and express our sympathy to Signora Malagna who was ill. Not a very exciting program for two boys our age and in such fine weather! We were hardly out of mother's hearing when we proposed a revision of the day's work. We offered Pinzone a fine lunch with wine, provided he would forget Church and Mrs. Malagna and go birdsnesting with us in the woods. There
was a gleam in his eye as he accepted. He ate our lunch and did not stint his appetite; making serious inroads on our allowance for the month. Then he joined us on our escapade, hunting with us for fully three hours, helping us to climb the trees and even going up himself. On our return home, mother asked after Mrs. Malagna, and questioned us about Confession. We were thinking up something to say, when Pinzone, with the most brazen face in the world, told the whole story of our day without omitting one detail. The punishments we inflicted for this and similar treachery never won us a decisive armistice; though the tricks we played on him were not wanting in a certain devilish ingenuity. Just before supper time, for instance, Pinzone would wait for the bell by taking a little nap on the couch in our front hall. One evening, of a wash day, when we had been put to bed early for some prank or other, we got up, filled a squirtgun with water from the wash, stealthily crept up to him, and let him have it full in the nostrils. The jump he gave took him nearly to the ceiling!
What we learned with such a teacher can readily be imagined; though it was not all his fault. Pinzone had
a certain erudition, among the classic poets; and I, who was much more impressionable than Berto, managed to memorize a goodly number of verses—especially charades and the baroque poetry of old. I could recite so many of these that mother was convinced we were both progressing very well. Aunt Scolastiea, for her part, was not deceived; and she made up for the failure of her plans for Pomino, by trying to set Berto and me in order. We knew we had mother on our side, however, and paid no attention to her. So angry was she at this
scorn of her interest in us that I am sure she would have given us both the thrashings of our lives had she been able ever to do so without mother's knowing. One day, when she was leaving the house in rage as usual, she happened to encounter me in one of the deserted rooms. I remember that she seized me by the chin and tightening her fingers till it hurt, she said: “Mamma's little darling! Mamma's little darling!”; then she lowered her face till her eyes were looking straight into mine; and a sort of stifled bellow escaped her: “If you were mine.... Oh, if you were mine....!” I can't yet understand why she had it in for me especially. I was a model pupil for Pinzone, as compared with Berto. It may have been the rather innocent face for which I have always been noted; an innocence accentuated rather than not by the pair of big round glasses they had fitted to my nose to discipline one of my eyes which preferred to choose, independently of the other, the objects it would look at. Those glasses were the plague of my life; and the moment I escaped from the authority of my elders, I
threw them away, restoring a longed−for autonomy to the oppressed member. As I viewed the matter, I was never destined to be a wonder for good looks, even with both eyes straight. Why go to all that trouble then? I was in good health! Never mind painting the lily! By the time I was eighteen, a red curly beard had come to monopolize most of my face, to the particular disadvantage of a mere dot of a nose which tended to lose its bearings somewhere between that fullsome thicket and the spacious clearing of a rather impressive brow. How
comforting it would be if we could only choose noses to match our faces! Imagine a man with an enormous
proboscis quite out of keeping with lean wizened features. To such a man I would have said: “Look here, friend, you have a nose that just suits me. Let's exchange! It will be to the advantage of both of us.” For that matter I could have improved in the selection of many other parts of my physique; but I soon understood that any radical betterment was out of the question. I grew reconciled to the face the Lord gave me, and dismissed the matter from my mind.
Brother Roberto, on the contrary, was not so easily distracted. As compared with me, he was a handsome
well−built lad; and unfortunately he knew it. He would spend hours in front of a mirror combing his hair and
dandying up in every way. He invested a mint of money in neckties, linen and other articles of dress. On one occasion he angered me with the fuss he made over a new evening suit for which he had bought a white velvet waistcoat. To spite him, I put the thing on one morning and went hunting in it.
“The Mole” meantime was not idle. Every season Malagna would come around complaining of the bad
crops and getting mother's consent to a new mortgage he was forced to take out. Now it would be repairs on a building; now additional drainage for a field; now the “extravagance of the boys.” A visit from him meant the certain announcement of another catastrophe. One year a frost (as he said) ruined our olive groves on the “Shoreacres”; then the philloxera destroyed our vineyards on “The Spur.” To import American roots (immune from this plague of the vines) we were obliged to sell one farm, and then a second, and then a third. Mother was sure that some day Malagna would find our pond at “The Coops” dried up! As for Berto and me, I suppose we did spend more money than was wise or
necessary; but that does not alter the fact that Battista Malagna was the meanest swindler that ever disgraced the surface of this planet. Words more severe than these I could not charitably use toward a man who eventually became a relative of mine by marriage. So long as mother was alive, Malagna allowed us to feel no discomforts. Indeed he put no limit to our caprices and expenditures. But that was just a blind to conceal the abyss into which, on my mother's death, I alone was to be plunged.
I alone... because Berto was shrewd enough to make a profitable marriage in good season. Whereas my
marriage.... “I ought to say something about my marriage, oughtn't I, Don Eligio?” Don Eligio is up on his ladder again, continuing his inventory. He looks around and calls back: “Your marriage? Why of course! The idea! Avoiding everything improper, to be sure....” “Improper! That's a good one! You know very well that....” Don Eligio laughs, and all this little deconsecrated church laughs with him.... Then he continues: “If I were you, Signer Pascal, I'd take a peep at Boccaccio or Bandello, in passing.... That would sort of get you into the spirit of the thing....”
Don Eligio is always talking about the “spirit of the thing,” the tone, the flavor, the style.... Who does he
think I am? D'Annunzio? Not if I can help it! I am putting the thing down just as it was; and it's all I can do, at that. I was never cut out to be a literary fellow.... But having once begun my story, I may as well continue, I suppose.
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